[COMM. TRIB. LOMBARDIA] Tassabilità del reddito da prostituzione

Giunge al secondo grado di giudizio la vicenda di una prostituta a cui l’Agenzia delle Entrate aveva richiesto il pagamento di circa 70.000 euro tra imposte e sanzioni per il suo reddito da attività di meretricio.
La Commissione tributaria regionale si è pronunciata ribaltando la decisione del giudizio di prime cure. La questione nacque quando l’ufficio delle Entrate calcolò presuntivamente il reddito della donna, basandosi sulle proprietà immobiliari di questa a Milano e provincia, e richiese il versamento all’erario di 68.277,67 euro. La donna non accettò e produsse tutta la documentazione necessaria a dimostrare la sua annosa attività di meretricio.
I giudici di primo grado, con la sentenza Comm. trib. prov. Milano, Sez. XLVII, 22 dicembre 2005, n. 272, dichiararono che “la difesa della ricorrente, basata sulla circostanza della non tassabilità dei redditi perché provento dell’attività di prostituta, va considerata idonea ad inficiare la pretesa erariale; infatti i proventi di tale attività non possono in alcun modo essere
ascritti a nessuna categoria di reddito
”, aggiungendo: “la verità è che, alla luce dell’attuale ordinamento, i proventi della prostituzione non possono essere considerati tecnicamente redditi, per cui la loro non assoggettibilità ad imposta è da considerare consequenziale” (leggi il testo integrale della sentenza). La commissione tributaria provinciale non mancava di rifarsi, nel suo ragionamento, alla precedente sentenza della Cassazione in cui si statuiva che “e’ assolutamente inconciliabile con il concetto di reddito ‘comunque qualificabile’, dipendente da lavoro autonomo o dipendente, … il guadagno conseguito da una prostituta a seguito della sua attività, contraria al buon costume” (Cass. civ., sez. III, 1 agosto 1986 n. 4927, consultabile su www.dannoallapersona.it).
In merito, assume rilievo anche una più recente pronuncia della Corte di Giustizia delle Comunità europee del 22 novembre del 2001, causa C-268/99. In essa (vedi testo) si accoglie un principio tutt’affatto diverso, assimilando la prostituzione a un’attività di lavoro autonomo, quando i proventi vengano versati interamente alla prostituta e la scelta di tale attività e delle relative modalità non siano imposte da terzi. Dunque, la prostituzione “esercitata in qualità di lavoratore autonomo può essere considerata un servizio fornito a fronte di una retribuzione”.
I giudici della commissione regionale non hanno affrontato direttamente il tema del guadagno da meretricio, ma sono partiti dal presupposto che la donna abbia comunque un reddito.
Un approccio simile, tentativo della giurisprudenza di razionalizzare situazioni non direttamente regolate dal diritto positivo, certamente non risolve con chiarezza il problema dell’adeguamento della qualificazione giuridica di un’attività antica come il mondo, ma nel nostro Paese ancora soggetta a incertezze e contraddizioni.

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