De servitute, ovvero, un’analisi semiseria della condizione del praticante avvocato come forma di schiavitù scriminata

Il praticante avvocato italiano. Una forma di vita meschina che l’ordinamento giuridico statale ha per lungo tempo trattato in modo del tutto particolare. L’originaria legge sull’ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore (r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, convertito, con modificazioni, dalla l. 22 gennaio 1934, n. 36) accenna solo al «periodo di pratica» compiuto «almeno per due anni consecutivi», quale prerequisito, tra i vari, per poter chiedere l’iscrizione all’albo professionale (art. 17, n. 5); oltre a prevedere i casi nei quali sostituire un anno – o due, per tutta una serie di soggetti specificamente individuati – di tale pratica professionale (art. 18); infine, si stabilisce il termine entro il quale maturare i due anni di pratica (10 novembre), ai fini dell’iscrizione all’unica sessione annuale dell’esame di abilitazione.

Il successivo r.d. 22 gennaio 1934, n. 37, recante il titolo “Norme integrative e di attuazione del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, sull’ordinamento delle professioni di avvocato e di procuratore”, dedica l’intero capo primo del titolo primo (per un totale di ben quattordici articoli), preoccupandosi esclusivamente di modellare una disciplina minuta di carattere procedurale relativa sia alla fase iniziale di iscrizione del richiedente a un locale Consiglio dell’Ordine degli avvocati, sia a quella degli adempimenti necessari in corso di pratica e alla fase eventuale di cancellazione. Poche norme sostanziali (artt. 5, 7 e 9), relative alla modalità di esercizio della pratica, ma che continuano a trattare il praticante come un destinatario di obblighi di carattere burocratico, più che come un soggetto di diritto da considerare in maniera completa e complessa.

Trascorrono molti decenni, e si arriva, finalmente, all’emanazione del d.p.r. 10 aprile 1990, n. 101, con il quale si provvedono a sostituire gli artt. 5, 7 e 9 r.d. n. 37/1934, mantenendo ferma, però, la tradizionale impostazione che mette al centro il periodo di pratica e utilizza il termine praticante più per ragioni legate alla grammatica italiana nella formulazione del precetto, che per una reale disciplina personalistica della condizione di praticante: indicativo è, al riguardo, il titolo della rubrica dell’art. 1 – modalità della pratica – e il suo primo comma, che recita: «la pratica forense deve essere svolta con assiduità, diligenza, lealtà e riservatezza».

È facile constatare come non sia rinvenibile nell’intero corpus normativo fino ad ora indicato una norma che attribuisca uno specifico status di “praticante”. Niente status, niente diritti. Ma solo obblighi e adempimenti relativi alla conclusione del primo anno di pratica e del certificato di compiuta pratica. Ovviamente, in assenza di una disciplina personalista, ossia che si occupa del praticante come soggetto di diritto, piuttosto che come oggetto della burocrazia, l’ordinamento deontologico forense si è sentito più che in grado, anzi in dovere quasi, di seguire una linea politico-normativa del tutto peculiare. Dopo un pallido riferimento alla applicabilità delle norme deontologiche «a tutti gli avvocati e praticanti nella loro attività, nei reciproci rapporti e nei confronti dei terzi» (art. 1, codice deontologico), si ritrova nel codice deontologico una sola norma specificamente pensata per regolare i rapporti dei professionisti abilitati con i propri praticanti, l’art. 26. A leggerlo si potrebbe dire “che meraviglia!”. In effetti vi si stabilisce che

«L’avvocato è tenuto verso i praticanti ad assicurare la effettività ed a favorire la proficuità della pratica forense al fine di consentire un’adeguata formazione.
I. L’avvocato deve fornire al praticante un adeguato ambiente di lavoro, riconoscendo allo stesso, dopo un periodo iniziale, un compenso proporzionato all’apporto professionale ricevuto.
II. L’avvocato deve attestare la veridicità delle annotazioni contenute nel libretto di pratica solo in seguito ad un adeguato controllo e senza indulgere a motivi di favore o di amicizia.
III. È responsabile disciplinarmente l’avvocato che dia incarico ai praticanti di svolgere attività difensiva non consentita
».

Stendendo un velo pietoso sulla effettività e proficuità del praticantato, specie se rapportate alla finalità del superamento dell’esame di abilitazione, la norma più risibile di tutte quelle che compongono l’art. 26 è proprio quella relativa all’ambiente di lavoro e all’aspetto retributivo. Infarcita di elementi normativi altamente flessibili, la fattispecie si rivela, sul piano della concreta attuazione, lasciata al più ampio arbitrio del dominus, il quale sarà libero di stabilire cosa sia adeguato e cosa no per il praticante; quanto debba durare il periodo iniziale; ma, soprattutto, quando possa dirsi proporzionato il compenso all’apporto professionale, che non è qualificato come “reso”, bensì come ricevuto, in un’ottica di funzionalità unilaterale che lascia libera la volontà dominicale di decidere se e in quale misura il lavoro svolto dal praticante abbia un valore concretamente monetarizzabile.
Una curiosità anche sulla tecnica redazionale. È facile notare, ai fini della dimostrazione di un’assoluta inesistenza del “praticante” come status giuridico, come la norma abbia come esclusivo destinatario l’avvocato e ponga a suo carico degli obblighi, il cui inadempimento però non può ricevere alcuna sanzione, essendo espressamente prevista una forma di responsabilità disciplinare solo per l’incarico di svolgimento di attività difensiva non consentita.
Anche in questo caso si conferma l’affermazione precedente: nessuna disciplina dello status, nessun diritto. Conseguenza? Possibilità di essere mandati via dallo studio del proprio dominus in qualsiasi momento, per qualsiasi motivo, senza possibilità di agire né nei confronti del dominus, né del Consiglio dell’ordine di appartenenza, né tantomeno del Consiglio Nazionale Forense. Altra conseguenza: quella di essere adibito alle funzioni di segretario tuttofare, non sussistendo uno specifico diritto di apprendimento del praticante, né uno specifico dovere di formazione del praticante a carico del dominus. Fino ad arrivare alle situazioni nelle quali si deve anche condividere in più persone piccole scrivanie tarlate poste all’ingresso dello studio professionale, con evidente ricaduta sulla qualità del lavoro da svolgere. Il tutto, ovviamente, in modo gratuito.

Pertanto, unendo queste considerazioni e la circostanza che una tale norma sia inserita all’interno del codice deontologico, la cui applicazione è spessissimo inquinata dai preminenti interessi di corporazione, se ne ricava solo una posizione giuridica minus quam perfecta, annoverabile tra le situazioni otturiate, la cui piena affermazione è rimessa alla buona volontà di un soggetto ordinamentalmente superiore.

Nessun diritto. Solo obblighi. Un dominus. Prestazione lavorativa gratuita.

Mettendo insieme questi quattro elementi, però, una regolamentazione dello status del praticante può in qualche modo desumersi dall’ordinamento, in particolare dal ramo del diritto penale.
Aiutati dallo sgradevolissimo riferimento all’avvocato che accoglie il praticante nel suo studio, quale dominus, ovvero padrone, come nel diritto romano era indicato il proprietario di servi, una disposizione del codice penale viene alla mente, l’art. 600, intitolato “Riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù”. La norma dispone che:

«Chiunque esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà ovvero chiunque riduce o mantiene una persona in uno stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni lavorative o sessuali ovvero all’accattonaggio o comunque a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento, è punito con la reclusione da otto a venti anni.
La riduzione o il mantenimento nello stato di soggezione ha luogo quando la condotta è attuata mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità o approfittamento di una situazione di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità, o mediante la promessa o la dazione di somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha autorità sulla persona.
La pena è aumentata da un terzo alla metà se i fatti di cui al primo comma sono commessi in danno di minore degli anni diciotto o sono diretti allo sfruttamento della prostituzione o al fine di sottoporre la persona offesa al prelievo di organi
».

Vediamo di porre maggiore attenzione alle parti evidenziate del testo legislativo, incrociandolo mentalmente con i riferimenti prima desunti dalla normativa extrapenale, riassunti nei quattro elementi.

Sotto il profilo del fatto tipico, la condizione fattuale nella quale il praticante avvocato è costretto può, senza eccessivi sforzi, essere ricondotta allo stato di soggezione, come definito dall’art. 600, secondo comma: sicuramente è integrato l’elemento dell’approfittamento di una situazione di necessità. Il dominus, il padrone, è ben consapevole del fatto che il praticante ha bisogno di sottomettersi ad ogni sua richiesta, pena l’impossibilità di compiere il periodo di pratica, il cui certificato è condizione essenziale per l’ammissione a sostenere l’esame di abilitazione, e pertanto approfitta di tale stato per imporre ogni tipo di prestazione lavorativa (predisposizione di atti, svolgimento di udienze, mansioni di segretario di studio) o ogni altro tipo di prestazione che ne comporti lo sfruttamento (pagare bollette, portare fuori l’adorato animaletto domestico per i suoi bisogni, accompagnare il figlio a scuola, oppure aiutarlo ad attraversare la strada). E l’elemento dello sfruttamento? È ovvio. Sta nell’assoluta mancanza di un diritto di retribuzione del praticante per l’attività svolta, o comunque di un dovere sanzionato a livello di fonte legale o deontologica. Al massimo si può far conto sul buon senso del dominus che potrà riconoscere una percentuale sull’onorario incassato (ipotesi più uniche che rare) oppure un rimborso forfetario delle spese sostenute direttamente dal praticante nell’esercizio dell’attività.

Dato per integrato il fatto tipico, però, la possibilità di dichiarare contraria alla legalità la situazione del praticante viene meno constatando, sul piano dell’analisi dell’antigiuridicità obiettiva, come lo stato di servitù al quale corrisponde la pratica professionale non possa essere perseguito, essendo scriminato dallo stesso ordinamento che ritiene la pratica stessa uno stato del tutto legittimo e addirittura un presupposto di fatto e di diritto per l’ulteriore esame di Stato di abilitazione alla professione forense.

Certo, se venisse meno questa causa di giustificazione generalizzata, sarebbe poi da condurre l’ulteriore accertamento, caso per caso, circa la sussistenza dell’elemento psicologico del dolo. Ma quanti sarebbero, all’esito, gli avvocati che verrebbero prosciolti dall’accusa?

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