Negozio di fondazione e art. 771 c.c. (con precisazioni a margine sulla funzione dell’obbligo per le persone giuridiche non societarie di accettare l’eredità con beneficio di inventario)

L’ormai nota sentenza della Cassazione, 5 maggio 2009 n. 10356, sulla proclamata nullità della donazione di bene altrui ai sensi dell’art. 771, comma 1, c.c., mi ha spinto a riflettere su quanto da me affermato nel commento a Cass., 8 ottobre 2008, n. 24813, in Nuova giur. civ. comm., 4, 2009, 416 ss., sull’atto costitutivo di fondazione (cfr. art. 16 c.c.); sulla sua natura di negozio unilaterale di liberalità e, più precisamente, sulla possibilità che la volontà istitutiva dell’ente e la sua dotazione patrimoniale (quali momenti essenziali dell’unitario negozio di fondazione) provengano da soggetti diversi (così Loffredo, Le persone giuridiche e le organizzazioni senza personalità giuridica, Milano, 2001, 39).
In quell’occasione scrivevo che «l’attribuzione patrimoniale effettuata da un soggetto diverso da colui che manifesta la volontà di erigere l’ente, sembra atteggiarsi a mera modalità di destinazione del patrimonio, essendo ben possibile attribuire, pur con efficacia reale differita, cespiti di titolarità aliena (cfr. art. 1478 cod. civ.)».
Tale affermazione si basava sul principio di diritto espresso dalla sentenza n. 1596/2001 della Cassazione, e che sembrava destinato a consolidarsi in giurisprudenza (cfr. al riguardo App. Napoli, 6 giugno 2008), per il quale la donazione di cosa altrui costituirebbe una fattispecie diversa dalla donazione di cosa futura e che, pertanto, questa può dirsi soltanto inefficace, in applicazione della disciplina di cui all’art. 1478 c.c.
Ma alla luce, adesso, del revirement operato dalla citata sentenza n. 10356/2009, da me condiviso già su questo portale (e meglio analizzato in Fam., pers. e succ., 1, 2010, 42 ss.), la realizzazione della fattispecie costitutiva/attributiva della fondazione come sopra congeniata sarebbe preclusa dal divieto contenuto nell’art. 771 c.c.
La validità dell’intera operazione, allora, potrebbe discendere soltanto dalla configurazione di un “accordo” tra colui che manifesta soltanto la mera volontà erettiva dell’ente e colui che dota l’ente stesso delle risorse economiche necessarie (si crede, all’uopo, di condividere la tesi sostenuta da Ferrara Sr., Le persone giuridiche, nel Trattato Vassalli, II, Torino, 1956, 234, secondo cui la partecipazione di più soggetti al compimento del negozio di fondazione non modifica la sua natura di atto unilaterale, ancorché plurisoggettivo, come a determinare «un fascio di volontà convergenti in un’unica direzione»).
Tutto ciò, ad ogni modo, continuerebbe ad atteggiarsi a mera modalità di destinazione del patrimonio all’ente costituendo, così confermando quanto già sostenuto in ordine alla natura unitaria del negozio istitutivo di fondazione.
In modo più estremo, poi, si potrebbe arrivare ad ammettere l’applicabilità dell’art. 1478 c.c. in vece dell’art. 771 c.c., nonostante la natura liberale dell’atto costitutivo di fondazione. Il “vero” oggetto del negozio di fondazione, infatti, nonché la sua funzione primaria, concernono l’erezione di un nuovo soggetto di diritto, per cui la ratio “patrimoniale” sottesa al divieto dell’art. 771 c.c. cederebbe di fronte al carattere primariamente “personale” del negozio unitario di fondazione, cosicché – anche in applicazione del principio di conservazione degli atti giuridici – dovrebbe potersi applicare l’art. 1348 c.c. e, in via analogica, l’art. 1478 c.c. ovvero, sempre per analogia, l’art. 651 c.c. se la fondazione viene costituita ex testamentu ai sensi dell’art. 14, comma 2, c.c.
La tesi, forse suggestiva, non è però molto convincente, soprattutto perché sulla base dello stesso ragionamento potrebbe escludersi l’applicabilità di tutta la disciplina prevista per gli atti di liberalità, compresa la revocatoria ex art. 2901, comma 1, n. 1, c.c. e la riducibilità a tutela dei legittimari ex artt. 555 e 809 c.c.

Ed, infine, a proposito della disciplina applicabile alla fondazione costituita per testamento, ho anche scritto che «la funzione dell’accettazione beneficiata è quella di evitare la confusione tra il patrimonio del de cuius e quello dell’erede, mantenendoli così giuridicamente separati (art. 490, comma 1°, cod. civ.)». È ovvio che questo, detto meglio, è l’«effetto» che – tra gli altri – produce l’accettazione con beneficio di inventario (dice bene, così, Morelato, da ultimo nel suo Alle fondazioni costituite per testamento, dunque, non si applicano le disposizioni normative riguardanti l’accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario, in Contr. e impr., 4-5, 2009, 830 ss.); laddove la «funzione» in senso tecnico, lo scopo dell’obbligo per le persone giuridiche non societarie di accettare con beneficio d’inventario (art. 473 c.c.), ritengo sia quello di tutelare il patrimonio degli enti non lucrativi dall’accettazione di damnosae hereditates.
Per tal motivo, la conclusione a cui sono pervenuto rimane immutata, poiché la fondazione costituenda ex testamentu non ha (ancora) alcun patrimonio da tutelare, nonché – come già scritto – «la verifica della sussistenza di un patrimonio «adeguato», anche a garanzia dei terzi creditori (Cons. Stato, II sez., 4.5.1994, n. 759, in Cons. Stato, 1994, 1849), è già affidata…al procedimento amministrativo di riconoscimento (ex art. 1, comma 3°, d.p.r. n. 361/2000)».

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  1. Il problema concernente l’applicabilità o meno dell’art. 771 c.c. al negozio di fondazione presuppone, come è chiaro, che di tale atto se ne affermi la natura donativa o, quanto meno, con causa di liberalità; e che alle “liberalità non donative” si applichino non soltanto gli istituti di cui all’art. 809, comma 1, c.c., ma tutta la disciplina che riguarda la causa liberale della donazione, tra cui – per l’appunto – l’art. 771 c.c.
    Per ciò che attiene alla natura liberale del negozio di fondazione, la dottrina e la giurisprudenza non sembrano aver dubbi di sorta: la dotazione patrimoniale effettuata dal fondatore risulta caratterizzata dallo stesso spirito di liberalità che anima il donante, ed arricchisce, direttamente, la fondazione destinataria del patrimonio di dotazione e, indirettamente, i beneficiari dell’attività esercitata dalla fondazione stessa.
    Il negozio di fondazione, poi, non è una donazione anche per il sol fatto che la struttura dei due atti è diversa: unilaterale del primo e contrattuale della seconda!
    Piuttosto, conta verificare se l’art. 771 c.c. appartenga o meno allo statuto delle cc.dd. “liberalità atipiche” (ossia le liberalità diverse dal contratto di donazione).
    A tal proposito, ritengo che l’art. 809, comma 1, c.c. non vada interpretato in modo meramente letterale, ma che, secondo la sua stessa ratio, esso esemplifichi le norme materiali sulla donazione che riguardano gli elementi comuni a tutti gli atti di liberalità (i.e. arricchimento del beneficiario con depauperamento del beneficiante e spirito di liberalità).
    Non pare revocabile in dubbio, a tal proposito, che l’art. 771 c.c. rientri nel catalogo delle norme suindicate (pur sempre salva la verifica del caso concreto), considerato che – come ricordato nel citato commento in Fam., pers. e succ. n. 1/2010 – lo scopo del divieto di donare beni futuri/altrui è quello di tutelare il beneficiario da depauperamenti di cui egli non potrebbe verificare l’impatto effettivo sul proprio patrimonio.

  2. E’ giunto il tempo, dopo qualche lustro, di rispolverare la questione trattata: già all’indomani delle note SS.UU. n. 5068 del 2016, in tema di donazione di cosa altrui, ma anche e soprattutto per il recentissimo arresto di Cass., 4 luglio 2017, n. 16409 (testo on demand), secondo il quale “l’atto pubblico costitutivo di una Fondazione, ai sensi dell’art. 14 c.c., non dà luogo ad un atto di donazione, avendo esso struttura di negozio unilaterale ed autonoma causa, consistente nella destinazione di beni per lo svolgimento, in forma organizzata, dello scopo statutario. Ne consegue che l’atto costitutivo di una Fondazione non rientra fra gli atti per i quali è sempre necessaria la presenza di due testimoni”.
    Per quanto concerne le Sezioni Unite, avendo ribadito la nullità della donazione di cosa altrui nella versione “traslativa”, ma avendone ammesso la validità nella versione “obbligatoria”, potrebbe dirsi confermata l’idea sopra riportata nel post per cui il fondatore non può dotare la fondazione di beni altrui senza impingere nel divieto dell’art. 771 c.c., a meno che non si accordi con il terzo titolare affinché sia quest’ultimo a dotare la fondazione con propri beni, oppure – ecco la novità – non si impegni specificamente a far dotare la fondazione dal terzo titolare.
    Tuttavia, come già detto nel precedente commento, tale problematica presuppone innanzitutto la natura liberale dell’atto di fondazione.
    Ebbene, la sentenza n. 16409 del 2017 sopra richiamata, dando continuità all’orientamento secondo cui l’atto di fondazione non consta di due momenti negoziali distinti (i.e. l’atto di costituzione e l’atto di dotazione) seppur collegati fra loro, ma costituisce un unico negozio in cui i momenti erettivo e patrimoniale sono giuridicamente inscindibili (così Cass. n. 24813/2008, da me commentata in Nuova giur. civ. comm., 4, 2009, 416 ss.), ha del tutto correttamente escluso che l’atto costitutivo di fondazione integri una donazione, non foss’altro che il primo è un atto unilaterale mentre la seconda è un contratto, ma sembrerebbe averne negato anche la natura di liberalità non donativa, giacché afferma che “l’effetto della dotazione dell’ente trova la sua autonoma giustificazione causale non nello spirito di liberalità del fondatore, quanto nella destinazione di beni per lo svolgimento, in forma organizzata, dello scopo statutario” (sottolineatura aggiunta).
    Se così fosse, verrebbe meno il presupposto dell’applicabilità dell’art. 771 c.c. al negozio di fondazione, che quindi lascerebbe impregiudicata la questione dell’ammissibilità di un soggetto conferente diverso dal soggetto fondatore; ma si dovrebbe altresì escludere, coerentemente, l’applicabilità di tutte le norme in materia di donazione applicabili anche alle liberalità non donative, ossia quelle contemplate dall’art. 809 c.c. e le altre che, secondo la teoria estensiva, connotano lo spirito di liberalità del beneficiante. Conclusione che però – si puntualizza appena – è contraria alla stessa sentenza n. 24813/2008 citata dalla Corte.
    A questo punto, allora, ritengo preferibile non proseguire oltre nell’analisi ed attendere i risultati esegetici cui perverranno le Sez. Un. sulla struttura e il funzionamento delle donazioni indirette (cfr. l’ordinanza di rimessione Cass. n. 106/2017), nella speranza di poter attingere da un quadro sistematicamente più chiaro dello statuto giuridico delle liberalità non donative.

  3. E quasi come un’invocazione divina, appena cinque giorni dopo dall’ultimo commento è giunta Cass., SS.UU., 27 luglio 2017, n. 18725 a chiarire, non tanto la natura giuridica delle liberalità non donative, quanto le loro caratteristiche distintive rispetto al contratto di donazione: “Si tratta – è stato sottolineato – di liberalità che si realizzano: (a) con atti diversi dal contratto (ad esempio, con negozi unilaterali come l’adempimento del terzo o le rinunce abdicative); (b) con contratti (non tra donante e donatario) rispetto ai quali il beneficiario è terzo; (c) con contratti caratterizzati dalla presenza di un nesso di corrispettività tra attribuzioni patrimoniali; (d) con la combinazione di più negozi (come nel caso dell’intestazione di beni a nome altrui)”, “le quali hanno in comune con l’archetipo [cioè il contratto di donazione ex art. 769 c.c.] l’arricchimento senza corrispettivo, voluto per spirito liberale da un soggetto a favore dell’altro, ma se ne distinguono perché l’arricchimento del beneficiario non si realizza con l’attribuzione di un diritto o con l’assunzione di un obbligo da parte del disponente, ma in modo diverso”.
    Sulla base di tale ricostruzione, non mi sembra possa dirsi esclusa in modo assoluto – in accordo con la tesi prevalente – la natura liberale (ma pur sempre non donativa) dell’atto unitario costitutivo di fondazione, dal momento che tale atto non è un contratto ed il fondatore potrebbe ben essere animato da spirito di liberalità nei confronti dei beneficiari dello scopo istituzionale della fondazione.
    Piuttosto, avendo espressamente aderito alla tesi secondo cui per la validità delle donazioni indirette non è richiesta la forma solenne “dato che l’art. 809 cod. civ., nello stabilire le norme sulle donazioni applicabili agli altri atti di liberalità realizzati con negozi diversi da quelli previsti dall’art. 769 cod. civ., non richiama l’art. 782 cod. civ., che prescrive l’atto pubblico per la donazione”, sembrerebbe che queste Sez. Un. abbiano accolto la tesi più restrittiva secondo cui alle liberalità non donative si applicherebbero soltanto le norme sulla donazione contemplate dall’art. 809 c.c., e dunque sia quelle formali che le altre non richiamate aventi carattere sostanziale, quali appunto l’art. 771 c.c. ovvero, ad esempio, l’art. 778 c.c.
    Quanto sopra, anche se – a dire il vero – nel prosieguo della stessa sentenza si legge che “si tratta di una donazione indiretta, la quale, se pure è sottoposta alle norme di carattere sostanziale che regolano le donazioni, non sottostà invece alle norme riguardanti la forma di queste”, quasi dunque a contrapporre alle norme sulla forma quelle sulla sostanza della donazione, escludendo le prime dal novero dell’art. 809 c.c. ed includendovi le seconde, tutte le seconde e, quindi, anche quelle ivi non espressamente richiamate.
    In conclusione, nonostante l’intervento delle Sezioni Unite, il catalogo delle norme sostanziali applicabili alle liberalità non donative rimane ancora incerto, e dunque tutte le superiori riflessioni mi sembrano ancora attuali.

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