La nullità delle norme deontologiche e loro natura “giuridica”

Ai sensi dell’art. 2, comma 3, del d.l. 4 luglio 2006, n. 223, come convertito con modifiche dalla legge 4 agosto 2006, n. 248 (c.d. decreto “Bersani”), a decorrere dal 1° gennaio 2007 le norme deontologiche, pattizie e dei codici di autodisciplina non adeguate e in contrasto con le regole di libera pattuizione dei compensi professionali e di libera pubblicizzazione e prestazione in forma associata dei servizi offerti “sono in ogni caso nulle”.
Si propone la seguente riflessione.
La scienza giuridica tradizionale ha configurato la nullità come la sanzione civilistica prevista dall’ordinamento a fronte di patologie strutturali del negozio giuridico posto in essere dalle parti; la conseguenza negativa a cui vanno incontro i soggetti di diritto allorquando manifestino una volontà negoziale contrastante con limiti (contenutistici e/o formali) apposti dall’ordinamento al libero esercizio dell’autonomia privata.
Le novità legislative che in vari settori hanno di recente interessato tale istituto, invero, ne hanno differenziato la disciplina applicabile (con particolare riferimento alla sanabilità e rilevabilità in giudizio) in ragione del tipo di interesse che il legislatore ha voluto nel caso di specie tutelare (vedi, fra tutti, la c.d. nullità di protezione di cui all’art. 36 del Codice del Consumo), senza per questo alterarne l’oggetto di riferimento, ossia il prodotto della regolazione paritetica e privata di rapporti giuridici.
La stessa nullità in argomento, in effetti, si riferisce al risultato di una volontà normativa riconducibile ad una volontà negoziale perché creatrice di norme autonome (nel senso che è la stessa categoria a regolare autonomamente l’esercizio della propria professione).
Ciononostante, la volontà manifestata per la definizione di norme deontologiche professionali è da taluni paragonata alla volontà normativa, di tipo “pubblicistico”, con cui il Legislatore produce norme eteronome nell’esercizio del proprio potere legislativo: la rappresentatività che connota gli organi di adozione delle regole deontologiche professionali, infatti, sembra assimilabile a quella attraverso cui il popolo esercita la propria sovranità legislativa secondo i dettami della Costituzione; il che avvicinerebbe – senza qualificarle come tali, però – le norme deontologiche alla categoria delle norme eteronome.
La sanzione di nullità in parola, pertanto, si affiancherebbe a quella prevista – non a caso – dalla stessa Costituzione, secondo cui la Corte costituzionale può annullare atti normativi cc.dd. primari (leggi e atti avente forza di legge) che siano da Essa giudicati illegittimi perché difformi dalla Costituzione. Una previsione parallela, contenuta – anche questa non a caso – in una fonte primaria, è prevista, inoltre, anche per gli atti normativi cc.dd. secondari (regolamenti) che siano adottati in violazione di norme primarie: anche queste possono essere annullate (dal giudice amministrativo) in quanto illegittimi.
Se ne deduce che ciascun sistema normativo è presidiato da un meccanismo di controllo giurisdizionale finalizzato all’intercettazione e all’eliminazione di tutti quegli atti di fonte subordinata che si pongono in contrasto con quelli appartenenti al sistema normativo di riferimento; cosicché come la Costituzione prevede un meccanismo di rimozione degli atti primari nulli perché eccedenti i limiti da Essa stabiliti, così la legge ordinaria prevede un meccanismo analogo contro gli atti secondari, anch’essi nulli perché evidentemente anch’essi eccedenti i limiti stabiliti dalla legge ordinaria.
Su un piano squisitamente dogmatico, allora, ci si interroga se la nullità di cui all’art. 2, comma 3, del decreto “Bersani” sia una nullità, per così dire, “pubblicistica”, configurabile come un diverso ed autonomo meccanismo di controllo di legittimità previsto dal sistema delle fonti primarie contro atti normativi subordinati (cioè le disposizioni dei codici deontologici e di autodisciplina), oppure se sia riconducibile all’alveo delle nullità “civilistiche”, prevista dal legislatore ai sensi dell’art. 1418, comma 3, c.c., a fronte di atti concernenti disposizioni normative lato sensu negoziali.
Conseguentemente, su un piano questa volta più concreto, sorge il problema di individuare il giudice competente ad accertare siffatta nullità: è prerogativa della giustizia domestica (nel caso di specie, quella del CNF) o della giustizia statale?
Con sentenza delle SS.UU., 20 dicembre 2007, n. 26810, la Corte di Cassazione ha affermato testualmente che “le norme del codice disciplinare forense costituiscono fonti normative integrative del precetto legislativo, che attribuisce al Consiglio nazionale forense il potere disciplinare, con funzione di giurisdizione speciale appartenente all’ordinamento generale dello Stato, come tali interpretabili direttamente dalla Corte di legittimità”.
È stata quindi accolta la tesi su esposta per cui le norme espressione dei poteri di autoregolamentazione degli organi competenti, ancorché di natura pattizia, sono accostabili alle norme giuridiche di produzione legislativa, ed assolvono come tali ad una funzione integrativa dell’ordinamento giuridico statale.
Invero, le Sez. Un. sono intervenute nel caso di specie per comporre un contrasto giurisprudenziale in tema di canoni ermeneutici delle norme deontologiche-disciplinari: superando il tradizionale orientamento (v. Cass. n. 10482/2003) secondo cui tali norme, avendo natura negoziale, vanno interpretate nel rispetto dei criteri di cui agli artt. 1362 e ss. c.c., la Corte ha confermato l’orientamento più recente (v. Cass. n. 13078/2004) che – come detto – riconosce alle norme medesime il rango di norme giuridiche, seppur con funzione meramente integrativa di quest’ultime, e quindi interpretabili secondo i canoni previsti per l’interpretazione degli atti normativi (art. 12 Preleggi).
Ciò detto, allora, si apre per davvero uno spiraglio di ragionevolezza nell’affermare che l’art. 2, comma 3, del decreto “Bersani” abbia creato un meccanismo di controllo di legittimità normativa analogo a quello della giustizia costituzionale; che il giudice deputato al funzionamento di tale meccanismo, quindi, appartenga all’ordinamento professionale da cui e in cui sono state create le norme in oggetto.
Infine, il riconoscimento della natura propriamente “giuridica” delle norme deontologiche, sembra aprire la strada alla possibilità per il cittadino di adire l’autorità giudiziaria nell’ipotesi in cui subisca un danno ingiusto a causa di loro violazione, colposa o dolosa, da parte del professionista deonticamente obbligato (ex art. 2043 c.c.).
Rimane comunque esclusa la possibilità, ad esempio, per il cliente dell’avvocato deontologicamente negligente, di far valere in via autonoma la stessa violazione in sede disciplinare, in quanto, per precisa disposizione di legge, gli unici titolari del relativo potere sono gli ordini professionali deputati alla creazione delle norme deontologiche violate.

4 comments to “La nullità delle norme deontologiche e loro natura “giuridica””
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  1. Giovedì 6 marzo 2008 si è tenuto a Perugia un incontro di studio dedicato ai rapporti tra “Privacy e deontologia“, al quale hanno partecipato, tra gli altri, i proff. A. Bellelli, F.D. Busnelli, E. Del Prato, G. De Minico e C.M. Bianca.
    Si è discusso, in particolare, della natura giuridica dei codici deontologici previsti dal c.d. Codice della Privacy (D.lgs. 30 giugno 2003, n. 196), della loro disciplina e dei risultati che essi hanno conseguito alla luce della nuova normativa sul trattamento dei dati personali (si ricorda che il prof. Bianca ha presieduto la Commissione tecnica incaricata di scrivere il testo del codice).
    Tuttavia, per quanto riguarda il tema di discussione proposto in articolo, mi sono apparse estremamente interessanti alcune riflessioni emerse durante la discussione.
    - Su segnalazione di chi scrive, il prof. Busnelli, analizzando velocemente la sentenza delle Sez. Un., 20 dicembre 2007, n. 26810 sopra segnalata, si è limitato a profilare l’innegabile conflitto tra, quelli che lo stesso ha definito, i “venti sconquassanti” della norma dell’art. 2, comma 3, del decreto “Bersani” da una parte – dietro la quale si nasconderebbe la volontà legislativa di trattenere le norme deontologiche nell’alveo delle clausole contrattuali (Busnelli ha quindi sposato la tesi della nullità civilistica ex art. 1418, comma 3, c.c.) – e la sentenza testé citata dall’altra parte, che ha composto il contrasto giurisprudenziale sulla natura delle regole deontologiche nel senso, opposto, di attribuire loro valenza normativa integrativa delle regole giuridiche.
    - La prof.ssa Bellelli ha concordato con quest’ultima ricostruzione, esaltando quel filone interpretativo minoritario che già si era fatto strada nella giurisprudenza della Corte, e che da ultimo le Sez. Un. hanno accolto;
    - La prof.ssa costituzionalista De Minico, invece, ha evidenziato il deficit democratico e di rappresentatività di cui soffrirebbero gli organi preposti nei vari settori all’adozione delle regole deontologiche, il quale solo se colmato esse potrebbero legittimamente assurgere al rango di (ulteriore) fonte del diritto. Interrogata, tuttavia, sulla rinvenibilità della componente democratica all’interno del C.N.N., “legislatore” deontologico notarile, posta la natura di pubblico ufficiale del notaio, De Minico ha ammesso la particolarità del caso, lasciando però – per ragioni di tempo – la questione irrisolta. De Minico, inoltre, ha evidenziato anche la necessità di adeguamento procedimentale e funzionale dei codici deontologici al rispetto dei ruoli, secondo i principi costituzionali e comunitari, tra lo Stato-titolare del potere normativo e il “privato”-delegato all’esercizio di tale potere, affinché non venga sconfessato, tra gli altri, il principio di legittimità sostanziale tra fonte primaria e fonte secondaria (qui deontologica).
    Riflessione, quest’ultima, assolutamente condivisibile nella misura in cui la portata precettiva delle regole deontologiche non fosse limitata agli appartenenti alla categoria professionale di riferimento: ma in caso contrario? Cioè, se la giuridicità di tali norme fosse compatibile con la regolamentazione limitata ai soli appartenenti?
    - Il prof. Bianca ha riflettuto proprio su questo aspetto, sull’opportunità o meno, date le premesse difficoltà, che i vari codici deontologici finiscano per disciplinare anche i comportamenti di soggetti estranei al procedimento di formazione degli stessi – quali i clienti/utenti dei soggetti professionali di riferimento -, e ha limitato tale eventualità al rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo: quindi un’autoregolamentazione “imposta” ai terzi nei limiti in cui essa non pregiudichi i diritti fondamentali di costoro.
    Imposizione, dunque, di carattere “normativo”? Sembrerebbe prospettabile, sebbene entro i limiti di cui ha parlato Bianca.
    - A tal proposito, il prof. Del Prato ha parlato di un modello concettuale di normativa deontologica strutturato sull’istituto civilistico del “contratto a favore di terzo con finalità deontologiche”: in questo senso, egli ha proposto il superamento del problema della qualificazione giuridica della regola deontologica, invitando soprattutto a cogliere la finalità deontica che può presentarsi – e si presenta – trasversalmente tra regole deontologiche e regole giuridiche.
    In conclusione, interrogata sulla plausibilità ermeneutica della “nullità deontologica” di cui all’art. 2, comma 3, del decreto “Bersani” intesa come meccanismo di controllo di legittimità previsto dal sistema delle fonti primarie contro atti normativi subordinati (cioè le disposizioni dei codici deontologici), la prof.ssa De Minico ha risposto in senso affermativo, precisando però che si tratta del medesimo meccanismo “cassatorio” già operante in via generale per le fonti normative secondarie, e che quindi, in tal senso, non crede possa parlarsi di una vera e propria novità. Per questo motivo, De Minico ha affermato la competenza del giudice amministrativo ad accertare siffatta nullità, escludendo quella del giudice ordinario per la funzione pubblica che l’attività negoziale di normazione deontologica presuppone.
    De Minico, però, non ha spiegato in che termini questa operatività generale possa risultare compatibile con la negazione della natura propriamemnte “normativa” alle regole deontologiche, se non adducendo argomentazioni di tipo storico, legate alle origini comunitarie di simili previsioni, come quella, ad esempio, che sancisce la nullità degli accordi anticoncorrenziali tra imprese.
    Un senso di insoddisfazione, dunque, che è stato poi invigorito dall’ammissione da parte della stessa De Minico per cui è registrabile, in effetti, un ulteriore passaggio dalla previsione della nullità di meri accordi alla previsione della nullità di regole deontologiche alla cui violazione l’illiceità di tali accordi, sempre per motivi storici, è stata collegata.
    Né, infine – ma solo per ragioni di tempo -, De Minico ha chiarito le ragioni della preferenza accordata al giudice amministrativo rispetto al giudice domestico per l’annullamento di norme deontologiche contrarie a norme primarie: tra tutte, probabilmente perché ad oggi le funzioni normativa e giudiziaria deontologiche sono ancora assolte dal medesimo organo nei vari settori prefessionali, proprio ciò che veniva criticato nel sistema dei ricorsi interni contro atti amministrativi illegittimi, fino all’istituzione della IV sezione, giurisdizionale, del Consiglio di Stato.

  2. Le SS.UU. confermano sé stesse! Con sentenza a SS.UU., 30 aprile 2008, n. 10875 (testo on demandn.d.r.), la Corte di Cassazione è ritornata ad occuparsi della natura giuridica delle norme deontologiche, ed ancora in merito all’attività ermeneutica in sede di giudizio di legittimità.
    L’orientamento giurisprudenziale a favore della tesi “pubblicistica”, pertanto, sembra in via di assestamento, e nelle sue più alti sedi.

  3. Clamoroso: Cass., SS.UU., 25 giugno 2013, n. 15873, massimata in Studium iuris, 2, 2014, p. 214 (testo on demand), sembra ripensarci (quantunque con riguardo ad una diversa fattispecie concreta) affermando che il codice deontologico forense non ha carattere normativo, essendo costituito da un insieme di regole che gli organi di governo degli avvocati hanno adottato per attuare i valori caratterizzanti la professione e garantire la libertà, la sicurezza e la inviolabilità della difesa, con la conseguenza che la violazione di tale codice deontologico rileva in sede giurisdizionale solo quando si colleghi all’incompetenza, all’eccesso di potere o alla violazione di legge, cioè ad una delle ragioni per le quali l’art. 56, comma 3, del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 gennaio 1934, n. 36, consente il ricorso alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, per censurare unicamente un uso del potere disciplinare da parte degli ordini professionali per fini diversi da quelli per cui la legge lo riconosce.

  4. Segnalo sul tema, per chi fosse interessato, il recente contributo del prof. Enrico Del Prato, Regole deontologiche delle professioni e principio di sussidiarietà: l’esperienza italiana, in Riv. dir. civ., 4, 2014, p. 764 ss. (testo on demand).

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