[CASS. PEN., SS.UU., N. 40049/2008] La formula d’assoluzione e l’interesse ad impugnare della parte civile

La questione rimessa alle Sezioni Unite dalla Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione riguarda l’ammissibilità del ricorso della parte civile che lamenti l’erroneità della formula assolutoria “perché il fatto non sussiste”, in luogo di quella “perché il fatto non costituisce reato”, quando si sia in presenza di una causa di giustificazione, nella specie l’esercizio del diritto di critica, che, ai sensi dell’art. 51 c.p., scrimina la condotta di diffamazione a mezzo stampa.
Le Sezioni Unite (Cass. pen., SS.UU., 28 ottobre 2008, n. 40049) sono giunte alla soluzione della mancanza della concretezza dell’interesse della parte civile seguendo un iter argomentativo articolato in tre momenti: la formula più corretta da adottare in presenza di una causa di giustificazione; l’interesse della parte civile ad impugnare una sentenza di assoluzione pronunciata con formula non corretta; gli effetti della sentenza penale di assoluzione nel giudizio civile per il risarcimento del danno da reato.
Riguardo al primo aspetto, la Cassazione non si è lasciata trascinare tra le incerte distinzioni dommatiche, dipendenti dall’accoglimento della teoria bipartita o tripartita del reato e riguardanti casi affatto particolari, né ha imboccato l’ardua strada di un inquadramento delle varie ipotesi di “non punibilità”. Si è, bensì, riagganciata a un dato condiviso dalla giurisprudenza e dalla dottrina maggioritarie, secondo il quale la formula “perché il fatto non costituisce reato” va utilizzata quando, pur essendo presenti gli elementi oggettivi del reato, manchi l’elemento soggettivo del dolo o della colpa, ovvero sussista una causa di giustificazione, comune o speciale, precisando, altresì, che la stessa formula deve esser adottata anche quando vi sia il dubbio sull’esistenza della scriminante, inteso come insufficienza o contraddittorietà della prova. Ha, perciò, ritenuto che, nel caso concreto di assoluzione dal delitto di diffamazione a mezzo stampa per l’accertata presenza della scriminante dell’esercizio del diritto di critica ex art. 51 c.p., i giudici di merito avrebbero dovuto adottare la formula “perché il fatto non costituisce reato”, invece di quella effettivamente utilizzata, “perché il fatto non sussiste”.
Rilevato, quindi, l’errore nella scelta della formula, la Corte si è chiesta se la parte civile possa avere interesse a impugnare l’assoluzione per tale vizio.
La parte civile ha diritto, ai sensi dell’art. 576 c.p.p., di impugnare la sentenza di assoluzione ai soli effetti civili, cosicché, in assenza dell’impugnazione del pubblico ministero, rimarrà intangibile il contenuto dell’accertamento relativo alla responsabilità penale, ma non sarà precluso al giudice di riconsiderare, in via incidentale, i profili di responsabilità dell’autore dell’illecito per la decisione sulla domanda civilistica.
Nei confronti delle sentenze di assoluzione, che possono compromettere il diritto della parte civile ad ottenere il risarcimento del danno, non vi sono difficoltà a riscontrare un interesse all’impugnazione. Ciò vale anche nei confronti di quelle sentenze assolutorie che non sarebbero preclusive rispetto all’azione civile davanti al giudice civile. Anche in queste ipotesi, infatti, il danneggiato, che si sia costituito parte civile per esercitare la sua azione di risarcimento nel processo penale, ha interesse a ottenere, in quest’ultima sede, il massimo di quanto può essergli riconosciuto e, quindi, anche la sostituzione di formule che possano, in qualche modo, limitare la soddisfazione della sua pretesa riparatoria nella sede competente, dal momento che la proposizione di un’azione di risarcimento dei danni per fatto illecito è senz’altro agevolata nel caso in cui il danneggiato possa avvalersi in sede civile di un accertamento della responsabilità per fatto illecito, già compiuto in sede penale.
Fatte queste precisazioni, la Cassazione, però, invita alla lettura della questione dal punto di vista degli effetti della sentenza penale di assoluzione nel giudizio civile, a prescindere dall’analisi sulla formula adottata, condotta sino a questo momento.
L’attenzione dell’interprete è, allora, richiamata al contenuto dell’art. 652 c.p.p.. Esso dispone che la sentenza di assoluzione abbia efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno solo con riguardo “all’accertamento che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto è stato compiuto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima”. Sicché, quanto alle situazioni che conducono alla pronuncia assolutoria “perché il fatto non costituisce reato”, è chiaro che l’art. 652 c.p.p. seleziona solo alcune di esse: l’adempimento di un dovere e l’esercizio di un diritto, rientranti nella sola causa di giustificazione di cui all’art. 51 c.p..
Ma ciò che preme sottolineare alla Cassazione è che l’art. 652 c.p.p. accorda valore di giudicato, non alla formula in sé e per sé, bensì all’effettivo e positivo accertamento che la sentenza contiene. Perciò, il giudice civile dovrà tener conto, non soltanto della formula utilizzata, ma anche della motivazione, per ricostruire il contenuto dell’accertamento effettuato, anche eventualmente prescindendo dalla stessa formula utilizzata.
Tanto più che, nel nostro ordinamento, la formula assolutoria deve essere la stessa anche nel caso di mancanza, insufficienza o contraddittorietà della prova, ai sensi dell’art. 530, c. 2 e 3, c.p.p.. Però, se questo vale per la statuizione di responsabilità penale, così non è ai fini del giudicato. Richiedendo, infatti, l’effettivo e concreto accertamento della non sussistenza del fatto o della sua non attribuibilità all’imputato o della presenza di una scriminante ex art. 51 c.p., l’art. 652 c.p.p. esclude l’effetto di giudicato possa nei casi di assoluzione conseguenti alla mancanza, insufficienza o contraddittorietà della prova. Di talché, anche le formule assolutorie più ampie non precludono automaticamente l’introduzione del giudizio civile, potendo esse ricomprendere anche le situazioni dubitative. Spetta al giudice accertare il contenuto dell’accertamento effettuato in sede penale e trarne le dovute, eventuali, preclusioni.
Nel caso di specie, la richiesta del ricorrente di sostituire la formula assolutoria adottata, non correlata da alcun intervento sull’accertamento compiuto in sede penale, non sortirebbe, se accolta, alcun vantaggio concreto per la parte civile, posto che il giudice della domanda risarcitoria sarebbe vincolato all’accertata presenza della causa di giustificazione di cui all’art. 51 c.p. (in cui rientra l’esercizio del diritto di critica ravvisato), anche a prescindere dall’adozione della formula “perché il fatto non costituisce reato”. Manca, perciò, l’interesse concreto della parte civile ad impugnare la sentenza di assoluzione pronunciata.

V. anche Santalucia G., L’errore nell’uso della formula assolutoria: quale spazio per l’impugnazione della parte civile?, in Cass. pen., 3, 2009, 897 ss..

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  1. Mi pare utile mettere in evidenza che, secondo un precedente indirizzo, la giurisprudenza riteneva che, ai sensi dell’art. 652 c.p.p., l’azione civile per il risarcimento del danno da fatto illecito sia preclusa, oltre che nel caso in cui l’imputato sia stato assolto perché il fatto non sussiste o per non aver commesso il fatto, anche quando egli sia stato assolto perché il fatto non costituisce reato per difetto dell’elemento psicologico, sul presupposto dell’identità di natura e di intensità dell’elemento psicologico rilevante ai fini penali e a quelli civili. In tal modo, si riteneva che un’eventuale pronuncia del giudice civile che affermi la sussistenza di tale elemento, escluso o messo in dubbio dalla sentenza penale irrevocabile, violi il giudicato, così ponendosi in contrasto con il principio dell’unità della funzione giurisdizionale. Pertanto, veniva ravvisato l’interesse della parte civile ad impugnare, ai fini civili, la sentenza di assoluzione dell’imputato con la formula “perché il fatto non costituisce reato” per difetto dell’elemento psicologico (Cfr. Cass. pen., sez. V, 19 gennaio 2005, n. 3416).
    Ora si afferma, di contro, che, quanto alla sentenza di assoluzione perché il fatto non costituisce reato, dalla formulazione letterale dell’art. 652 c.p.p. emerge chiaramente che l’efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo di danno è riconosciuta soltanto quando essa contenga l’accertamento che il fatto è stato compiuto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima, perché in tal caso difetta il carattere di illiceità del comportamento e quindi il requisito dell’ingiustizia del danno. Negli altri casi, quando l’assoluzione perché il fatto non costituisce reato è stata pronunciata per mancanza dell’elemento soggettivo del reato, o per la presenza di una causa di giustificazione diversa da quella di cui all’art. 51 c.p. o per un’altra ragione, la sentenza non ha efficacia di giudicato nel giudizio di danno e spetta al giudice civile o amministrativo il dovere di accertare autonomamente, con pienezza di cognizione, i fatti dedotti in giudizio e di pervenire a soluzioni non vincolate all’esito del giudizio penale.

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