[CASS., SS.UU., N. 9147/2009] Risarcimento del danno derivato dall’inattuazione di direttive comunitarie

Con la sentenza Cass., SS.UU., 17 aprile 2009, n. 9147, la S.C. affronta la questione del risarcimento del danno derivante dalla mancata trasposizione, nel termine prescritto, delle direttive comunitarie (in particolare, la direttiva n. 82/76/CEE) che prevedono l’obbligo di adeguata remunerazione del medico specializzando, vale a dire la corresponsione di emolumenti destinati a sopperire alle esigenze materiali della vita in relazione all’impegno a tempo pieno per il periodo di formazione.
La mancata trasposizione fa sorgere, come a più riprese rilevato dalla Corte di Giustizia CE, il diritto degli interessati al risarcimento del danno cagionato per il ritardato adempimento, fermo restando che è nell’ambito del diritto interno che deve ripararsi il danno, dal momento che l’ordinamento comunitario impone soltanto il raggiungimento di un determinato risultato.
A tal fine, la S.C., preso atto dell’esistenza di un orientamento prevalente che riconduce l’inerzia del legislatore alla fattispecie di cui all’art. 2043 c.c. e di un orientamento minoritario che esclude l’imputabilità di un illecito civile allo Stato inadempiente, ricostruisce lo strumento di tutela diretto a porre riparo al pregiudizio subito dal singolo secondo lo schema dell’obbligazione ex lege, di natura indennitaria per attività non antigiuridica.
Pertanto, viene riconosciuto al danneggiato un credito alla riparazione del pregiudizio subito per effetto del c.d. fatto illecito del legislatore di natura indennitaria, rivolto, in presenza del requisito della gravità della violazione e senza che rilevino i criteri di imputabilità per dolo o colpa (come richiesto dalla giurisprudenza comunitaria), a compensare l’avente diritto della perdita subita in conseguenza del ritardo, avente natura di credito di valore.
Ne consegue che tale pretesa risarcitoria, in quanto diretta all’adempimento di un’obbligazione ex lege (di natura indennitaria), riconducibile come tale nell’area della responsabilità contrattuale, è assoggettata al termine di prescrizione ordinaria (decennale). Essa decorre, in specie, dal conseguimento dell’attestato di specializzazione.

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  1. La presente pronuncia si inscrive in un ampio contenzioso che vede contrapposti i medici ammessi alle scuole di specializzazione negli anni accademici 1983-1991 e lo Stato italiano, in ragione del fatto che il D. Lgs. n. 257/1991, contenente la disciplina attuativa della direttiva comunitaria n. 82/76/CEE, ha previsto l’erogazione di borse di studio solo per i medici ammessi alle predette scuole con decorrenza dall’anno accademico 1991-1992.
    Fino ad ora, la questione della qualificazione giuridica della domanda risarcitoria proposta dagli interessati veniva risolta dalla giurisprudenza prevalente con la configurazione di un diritto al risarcimento del danno derivante da fatto illecito, con conseguente applicazione del termine di prescrizione quinquennale.
    Controversa è, inoltre, l’individuazione del dies a quo della prescrizione.
    Secondo la tesi maggioritaria, dovendosi identificare il fatto generatore di danno nell’esercizio illegittimo della funzione legislativa, l’illecito è istantaneo e non permanente, poiché si consuma nel momento stesso in cui viene adottato il testo normativo di cui si lamenta la non rispondenza al diritto comunitario. Secondo un’altra tesi, invece, che si richiama al principio formulato dalla giurisprudenza comunitaria secondo cui lo Stato non può trarre vantaggio dal proprio inadempimento agli obblighi comunitari, l’illecito è permanente, non essendosi ancora realizzata la trasposizione della direttiva con riferimento al primo periodo dopo la sua entrata in vigore, sicché la prescrizione non ha, ad oggi, ancora iniziato a decorrere.
    In ultimo, va segnalato che, in una recentissima sentenza del Trib. Catanzaro, 20 aprile 2009, viene fatta propria la tesi dell’illecito civile a carattere istantaneo, sul presupposto che la direttiva sia stata trasposta nell’ordinamento italiano, pur se in modo inesatto. Per questo motivo, non si configurerebbe una perdurante inerzia del legislatore, essendosi la condotta illecita esaurita nel momento dell’inesatta attuazione della direttiva.

  2. Mi ricordo che tempo fa si discusse insieme della questione qui segnalata e, se e solo se non possa riconoscersi una “efficacia diretta” alla direttiva n. 82/76/CEE (secondo l’interpretazione datane dal giudice di merito), mi sento di condividere la tesi oggi accolta dalle sez. un. laddove abbiano individuato nella prestazione riparatoria dello Stato l’oggetto di un’obbligazione ex lege rimasta inadempiuta, e non già la conseguenza di un fatto illecito ai sensi dell’art. 2043 c.c..
    L’eventuale efficacia diretta della direttiva in parola, invece, permetterebbe al cittadino dello Stato inadempiente di esercitare direttamente, appunto, il diritto riconosciutogli dalla direttiva, e cioè di pretendere dallo Stato l’adempimento non dell’obbligo riparatorio derivante dalla mancata attuazione della direttiva stessa, bensì dell’obbligo di – nel caso d specie – corrispondergli la borsa di studio.
    In ogni caso, ovviamente, a partire dal momento in cui è scaduto il termine finale di attuazione della direttiva comunitaria!
    Infatti, il riconoscimento di un’efficacia diretta (verticale) della direttiva inattuata rappresenta lo strumento di tutela in forma specifica a fronte dell’adempimento dell’obbligazione, sempre ex lege, di attuare la direttiva comunitaria; fatta salva, ad ogni modo, la possibilità di agire contro lo Stato per il reintegro di quanto non eventualmente coperto dallo strumento dell’efficacia diretta.
    Nutro maggiori perplessità, invece, con riferimento all’affermata natura indennitaria e non risarcitoria della prestazione in oggetto.
    Come può affermarsi, infatti, che l’inadempimento di un obbligo non sia antigiuridico?
    Posto che si parla di “indennità” a fronte di un danno cagionato dalla commissione di un fatto lecito, l’affermazione secondo cui l’obbligazione in specie non derivi da un fatto illecito extracontrattuale non implica certo che il fatto generatore sia sol per questo un fatto lecito. Qualunque inadempimento è, in senso lato, un fatto illecito, sicché ritengo che il danno che ne derivi dovrebbe essere tecnicamente “risarcibile” e non soltanto “indennizabile”.

  3. Ricordo che avevamo discusso della questione, che, a quanto pare, è attualissima e controversa.
    Condivido in pieno le tue osservazioni.
    In proposito, vi è da dire che l’efficacia diretta della direttiva in esame è esclusa dalla giurisprudenza della Cassazione, ed ancor prima da quella comunitaria. Si afferma, infatti, nella recente pronuncia a sezioni unite, che sul punto rimanda alla sentenza CGCE C-131/97, che la direttiva non aveva carattere dettagliato, in ragione del fatto che non consentisse di identificare il debitore tenuto al versamento delle somme né l’importo delle stesse, così rendendo necessaria la trasposizione sul piano dell’ordinamento interno. Di qui, il diritto degli interessati al risarcimento del danno cagionato dal mancato adempimento.
    Ciò premesso, effettivamente non si vede perché l’inadempimento dell’obbligazione ex lege riguardante il recepimento della direttiva, dal quale sono derivate in via immediata e diretta talune conseguenze negative in danno degli interessati, venga a fondare il diritto a conseguire un mero indennizzo per fatto lecito e non il ristoro dell’intero pregiudizio sofferto per fatto illecito, come peraltro richiesto dalla giurisprudenza comunitaria.
    Quanto al dies a quo ai fini della prescrizione, mi pare possa individuarsi nel momento in cui è scaduto il termine finale di attuazione della direttiva ovvero – si potrebbe pure ritenere – nel momento in cui il soggetto ha maturato i requisiti previsti a livello generale nella direttiva, vale a dire la frequenza del corso di specializzazione. Questi, infatti, se fosse stata data attuazione al principio comunitario, avrebbe acquistato il diritto di percepire un’adeguata remunerazione anno per anno per tutta la durata del corso di formazione a tempo pieno (Cfr. direttiva 82/76/CEE).
    In ogni caso, la pronuncia a sezioni unite ha indubbiamente un pregio: dalla qualificazione in termini di responsabilità per inadempimento di obbligazione ex lege, in luogo di responsabilità extracontrattuale, discende un termine di prescrizione ben più favorevole.
    Infine, va segnalato che nelle sentenze Cass. civ., sez. III, 12 febbraio 2008, n. 3283 e Cass. civ., sez. lav., 11 marzo 2008, n. 6427, premessa la riconduzione della fattispecie all’illecito extracontrattuale, si riconosce, in favore di coloro i quali non hanno potuto godere del diritto ad un’adeguata remunerazione per il periodo di frequenza delle scuole di specializzazione, il diritto al pieno risarcimento del danno conseguente alla mancata tempestiva attuazione della citata direttiva, inclusivo del ristoro della perdita di chance di ottenere i benefici resi possibili da una tempestiva attuazione della stessa, ossia percorsi formativi scevri, almeno in parte, da preoccupazioni esistenziali, ove adeguatamente retribuiti.

  4. Non mi sento di condividere l’idea, così posta in termini generali, secondo cui il dies a quo ai fini della prescrizione potrebbe individuarsi anche “nel momento in cui il soggetto ha maturato i requisiti previsti a livello generale nella direttiva”.
    Questo è palesemente vero nel caso in cui il cittadino concluda la frequenza del corso di specializzazione DOPO la scadenza del termine finale di attuazione; ma per coloro che abbiano maturato tale requisito PRIMA dello stesso termine, il dies a quo non può che coincidere con il medesimo termine di scadenza.
    In entrambi i casi, ai sensi di quanto disposto dall’art. 2935 c.c..

  5. Concordo ancora una volta con te: si può considerare la pendenza del termine per il recepimento della direttiva come un impedimento di ordine giuridico all’esercizio del diritto, rilevante ex art. 2935 c.c. ai fini del computo della prescrizione.
    Ciò implica che essa non decorre se il soggetto matura i requisiti di fatto quando ancora non è scaduto il termine per il recepimento della direttiva. Se invece il soggetto matura i requisiti di fatto dopo la scadenza del termine, si deve ritenere che da tale momento inizi a decorrere la prescrizione.
    Considerato che la direttiva imponeva agli Stati membri di assumere le misure di attuazione entro il 31 dicembre 1982 e che i casi esaminati dalla giurisprudenza riguardano soggetti che avevano frequentato le scuole di specializzazione successivamente a tale data, in questi casi deve concludersi che la prescrizione (decennale, secondo le sezioni unite) decorra dal momento in cui si sono compiuti i prescritti periodi di formazione a tempo pieno.

  6. Scusate il chiarimento, ma mi sembra di aver capito che, in tema di responsabilità dello Stato membro per inadempimento dell’attuazione della normativa comunitaria, occorre distinguere perchè:
    - in base al nostro ordinamento, è richiesto il presupposto della gravità della violazione (Cassazione)
    - in base all’ordinamento comunitario, è necessario provare, oltre al requisito della gravità della violazione, anche il dolo o la colpa dello Stato membro (Corte di giustizia).
    Mi sbaglio?

  7. Secondo la giurisprudenza comunitaria, “qualora uno Stato membro violi l’obbligo, ad esso incombente in forza dell’art. 189, terzo comma, del Trattato, di prendere tutti i provvedimenti necessari a conseguire il risultato prescritto da una direttiva, la piena efficacia della norma di diritto comunitario esige che sia riconosciuto un diritto al risarcimento ove ricorrano tre condizioni. La prima di queste condizioni è che il risultato prescritto dalla direttiva implichi l’attribuzione di diritti a favore dei singoli. La seconda condizione è che il contenuto di tali diritti possa essere individuato sulla base delle disposizioni della direttiva. Infine, la terza condizione è l’esistenza di un nesso di causalità tra la violazione dell’obbligo a carico dello Stato e il danno subito dai soggetti lesi. Tali condizioni sono sufficienti per far sorgere a vantaggio dei singoli un diritto ad ottenere un risarcimento, che trova direttamente il suo fondamento nel diritto comunitario” (C.G.C.E. C-6/90 e C-9/90, in EUR-Lex).
    Pertanto, il nesso psicologico non è richiesto.

  8. Nuova sentenza della Corte di Cassazione sulla questione in argomento (sentenza 17 maggio 2011, n. 10813), la quale ha avallato la medesima tesi circa la natura ex lege dell’obbligazione assunta dallo Stato-membro di dare esecuzione ad una Direttiva U.E., con tutte le conseguenze del caso: responsabilità di tipo contrattuale e termine di prescrizione decennale per far valere la relativa pretesa risarcitoria.
    Tuttavia, dopo aver ribadito quanto sopra rilevato (vedi commento del 20 maggio 2009) circa l’ammissibilità del rimedio risarcitorio soltanto con riguardo a Direttive U.E. non self-executing, questa nuova pronuncia ha finito per ammettere la contraddizione concettuale nella quale sono cadute le predette SS.UU. n. 9147 del 2009 (vedi sopra, sempre nel commento del 20 maggio 2009) nel qualificare una responsabilità da inadempimento come produttiva di un’obbligazione meramente indennitaria, e non anche risarcitoria, sebbene a tale contraddizione – viene subito chiarito e condiviso, però – le sez. un. sono state “costrette” dalla giurisprudenza della C.G.C.E. per ammettere, a loro giudizio, una forma di responsabilità esente da colpa, proprio come quella indennitaria.
    Si legge, infatti, che “l’inadempimento del legislatore italiano all’attuazione di una direttiva riconoscente in modo specifico determinati diritti ai singoli, ma non self – executing, è venuta a connotarsi sul piano dell’ordinamento interno come fatto generatore di un’obbligazione risarcitoria, cioè come fonte di un’obbligazione di ristoro, ed è evidente che, se dà luogo ad un’obbligazione di questo tipo, cioè che impone una prestazione a ristoro dell’inadempimento, tale comportamento si caratterizza necessariamente come antigiuridico anche sul piano dell’ordinamento interno, dato che è da considerare nel suo ambito come “fatto” produttivo della nascita di un’obbligazione e, quindi, di una conseguenza negativa per lo Stato“.
    La scelta delle Sezioni Unite, d’altro canto, si può ritenere in qualche modo obbligata, per il fatto che la giurisprudenza della Corte di Giustizia [...] esige che l’obbligazione risarcitoria dello Stato non sia condizionata al requisito della colpa, il che di regola è, invece, necessario nell’illecito ex art. 2043 c.c.“: tale citazione ci consente di concludere che, nonostante la contraddizione concettuale sopra menzionata, la Corte di Cassazione ha finito per riconoscerla non tanto allo scopo di scioglierla, superandola, ma soltanto per confermare – ciononostante – che la responsabilità dello Stato inadempiente è di tipo contrattuale, da violazione di un’obbligazione sorta ex lege, e non già di tipo extracontrattuale, da violazione del generico obbligo di neminem non ledere.

  9. Ed infine il colpo di spugna del Legislatore: ai sensi dell’art. 4, comma 43, della Legge di Stabilità 2012 (Legge 12 novembre 2011, n. 183; G.U. 14 novembre 2011, n. 265, in vigore dal 1° gennaio 2012), “la prescrizione del diritto al risarcimento del danno derivante da mancato recepimento nell’ordinamento dello Stato di direttive o altri provvedimenti obbligatori comunitari soggiace, in ogni caso, alla disciplina di cui all’articolo 2947 del codice civile e decorre dalla data in cui il fatto, dal quale sarebbero derivati i diritti se la direttiva fosse stata tempestivamente recepita, si è effettivamente verificato“.
    In primo luogo, è stata disattesa la tesi della Cassazione ormai in via di consolidamento secondo cui il termine di prescrizione del diritto al risarcimento doveva considerarsi di 10 anni in quanto si trattava di una responsabilità di tipo contrattuale, ed è stata di contro indicata la prescrizione di 5 anni propria del diritto al risarcimento da responsabilità extracontrattuale.
    Ora, sarebbe facile dedurne che pure la natura giuridica della responsabilità dello Stato per mancata attuazione delle direttive U.E. si sia voluto qualificarla come da fatto illecito extracontrattuale, ma a ben vedere non solo la disposizione de qua nulla dice in tal senso – ed anzi, la precisazione che il diritto in parola si prescrive nel termine di cui all’art. 2947 c.c. (rectius: del suo primo comma) “in ogni caso” potrebbe deporre a favore dell’indifferenza mostrata dal Legislatore circa la natura giuridica della connessa responsabilità civile – ma averla intesa come responsabilità da fatto illecito – ordinariamente di tipo “colpevole”, salvo espressa previsione contraria (che qui manca!) – porrebbe la novella in inevitabile contrasto con la giurisprudenza della Corte di Giustizia che, come già detto più volte, richiede in tali casi una forma di responsabilità esente da colpa.
    Inoltre, la genericità del riferimento a “direttive o altri provvedimenti obbligatori comunitari” non giustifica di per sé l’estensione della tutela risarcitoria a qualsiasi tipo di direttiva U.E., poiché i suoi “presupposti” non sono stati disciplinati e, dunque, rimangono sempre i medesimi: ossia, che la direttiva U.E. rimasta inattuata sia non self-executing (vedi commento del 20 maggio 2009).

    In secondo luogo, infine, è stato precisato che il dies a quo del termine di prescrizione (quinquennale) decorre “dalla data in cui il fatto, dal quale sarebbero derivati i diritti se la direttiva fosse stata tempestivamente recepita, si è effettivamente verificato”.
    E’ interessante porre l’attenzione sui passi sopra sottolineati.
    Il primo passo sembra presuppore che il termine per l’attuazione della direttiva U.E. (anche qui rectius: o altri provvedimenti obbligatori comunitari) sia già scaduto affinché il quinquennio della prescrizione possa cominciare a decorrere, giacché il recepimento potrebbe dirsi intempestivo solo se è stato effettuato, eventualmente, DOPO la scadenza prevista. Sicché si può ben riaffermare che il dies a quo ai fini della prescrizione si individua nel momento in cui il soggetto si ritrovi nella condizione indicata dalla direttiva dopo che sia scaduto il termine finale di attuazione; mentre per coloro che si trovino nella suddetta condizione prima dello stesso termine, il dies a quo coinciderà con il medesimo termine di scadenza (vedi commento del 21 maggio 2009).
    Il secondo passo pare invece tradire la volontà del Legislatore di agganciare il dies a quo della prescrizione non tanto al giorno della verificazione obiettiva del fatto, quanto al giorno della sua percezione da parte del cittadino-danneggiato (donde verificazione “effettiva”), in ossequio così alla giurisprudenza di legittimità più recente che pare ormai maggioritaria.

  10. Si può esprimere qualche riserva sulla tecnica legislativa utilizzata e sulla sedes materiae prescelta.
    È necessario che il legislatore sciolga la questione una volta per tutte ed in modo espresso, prendendo posizione sulla natura della responsabilità di cui si tratta, anziché considerarla soltanto sotto il profilo delle conseguenze sulla finanza pubblica.
    La soluzione, peraltro, è in parte vincolata dai principi espressi dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia.
    Quanto alla natura della responsabilità, già nella sentenza Francovich (19 novembre 1991, C-6/90 e C-9/90) si affermava che “le condizioni, formali e sostanziali, stabilite dalle diverse legislazioni nazionali in materia di risarcimento dei danni non possono essere meno favorevoli di quelle che riguardano reclami analoghi di natura interna e non possono essere congegnate in modo da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile ottenere il risarcimento”.
    La difficoltà risiede nell’individuare una situazione analoga sul piano del diritto interno, alla quale assimilare la tutela risarcitoria in questione. Considerata la posizione in cui agisce l’autore del danno, individuabile nel soggetto titolare del potere legislativo, e la causa del danno, costituita dalla mancata o tardiva attuazione di un obbligo derivante da un norma sovraordinata alla legge, si deve concludere che la situazione presenti una certa qual affinità con quella della responsabilità derivante da illegittimo esercizio del potere amministrativo. Pur con ogni differenza del caso, le due situazioni hanno in comune la soggezione di un privato ad un pubblico potere. Nel campo del diritto amministrativo, secondo la tesi consolidata, si qualifica la responsabilità come extracontrattuale e, coerentemente, si afferma la prescrizione quinquennale.
    La medesima soluzione può valere nel caso di cui si tratta.
    Quanto al tipo di responsabilità, esso non può che essere oggettivo, come impone la giurisprudenza della Corte di Giustizia. Ciò dovrebbe formare oggetto di espressa previsione, trattandosi di una deroga al generale principio della soggettività dell’imputazione.
    Quale che sia la scelta del legislatore, non sarebbe fuori luogo inserire le necessarie disposizioni nel corpo della Legge 4 febbraio 2005, n. 11, recante “Norme generali sulla partecipazione dell’Italia al processo normativo dell’Unione europea e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari”.

  11. Mi ”intrufolo” nella vostra interessante discussione, per buttar là qualche idea in libertà su uno dei problemi che la novità normativa va ad incidere, ossia la natura giuridica della responsabilità dello Stato per violazione del diritto europeo. Giustamente Gianluca fa notare che la norma impone un termine quinquennale, che chiama in causa il regime della responsabilità extracontrattuale, rispetto al termine decennale per il quale avevano optato le Sezioni Unite nel 2009.
    E così il legislatore – sebbene involontariamente, forse, per ragioni collegate ad un’esigenza di contenimento della spesa pubblica – toglie il velo sulla contraddittorietà e sui limiti, sul piano tanto della coerenza sistematica quanto di quella applicativa, del revirement del ’09. Una contraddittorietà che è soprattutto legata all’incompatibilità della soluzione prescelta dalle Sezioni Unite rispetto alla giurisprudenza della Corte di Giustizia che ha sempre coerentemente ricostruito la responsabilità statale per violazione del diritto europeo come responsabilità per illecito extracontrattuale.
    Le Sezioni Unite, al contrario, discostandosi da precedenti in prevalenza di segno contrario, hanno ritenuto di dare continuità ad un più datato orientamento che riteneva di poter concepire la responsabilità dello Stato – legislatore solo in forma di indennizzo. Nelle motivazioni, tuttavia, ci si affrettava a precisare che, se gli strumenti di diritto interno idonei a tutelare le situazioni giuridiche attribuite ai cittadini dal diritto UE avrebbero dovuto essere reperiti al di fuori della responsabilità extracontrattuale, trovando fondamento in un’obbligazione ex lege, di natura indennitaria, determinata da una “attività non antigiuridica” dello Stato (con la conseguente applicazione di una prescrizione decennale e l’esclusione di ogni indagine sulla colpa), le regole per il concreto svolgimento dell’accertamento giudiziale avrebbero dovuto trarsi dai precedenti della Corte di Giustizia sotto il profilo sia dei presupposti per la tutela (“violazione sufficientemente qualificata” di norme europee) sia di un’integrale riparazione del danno.
    Si comprende allora come l’errore metodologico delle Sezioni Unite sia stato quello di trattare “a valle” un problema che sta a monte – o dovrebbe stare a monte – di ogni discussione sui profili operazionali della responsabilità (prescrizione, distribuzione dell’onere probatorio, ecc.). Dico “dovrebbe” perché le nostre Corti – e il caso della responsabilità per inesatto o tardivo recepimento di direttive europee ne è un esempio – tendono spesso a fare esattamente il contrario (cioè optare per l’una o l’altra regola operazionale e da lì risalire alla qualificazione giuridica dell’istituto), con tutte le criticità che ciò comporta nella prassi applicativa (nel nostro caso – tanto per fare solo qualche esempio – i rischi di undercompensation e, al contempo, di overcompensation che i modelli di responsabilità per atti leciti portano con sé, soprattutto ove legati a vicende dannose coinvolgenti lo Stato e vicine, perciò, per molti aspetti alla categoria dei mass torts).
    Non è un caso che, più di recente, la Cassazione (sent. n. 10813/2011) abbia sentito la necessità di chiarire gli intendimenti delle Sezioni Unite, mostrando in filigrana un certo disagio verso l’introduzione pretoria di un’ipotesi di responsabilità per atti leciti del legislatore (e anche sulla discutibilità di questa introduzione pretoria ci sarebbe parecchio da dire, ma non v’annoio…). Si sostiene che in dottrina vi sarebbe stato un fraintendimento in merito alla non illiceità del comportamento del legislatore nazionale, affermata dalle Sezioni unite, e che tale affermazione riguarderebbe soltanto la non riconducibilità della responsabilità all’art. 2043 c.c., ricorrendo piuttosto una responsabilità da inadempimento dell’obbligazione indennitaria fondata sull’art. 1173 c.c. ed originata dal comportamento inadempiente del legislatore rispetto all’obbligo, nascente dal diritto UE, di dare attuazione alle direttive europee. Salta subito all’occhio la confusione di piani in cui incappa la Suprema Corte…
    Sulla questione, poi, dell’imputazione soggettiva della responsabilità che il 2043 porta con sé, io rimango dell’idea che è proprio dalla giurisprudenza europea sull’illecito degli Stati membri che viene un appiglio per una qualificazione in senso soggettivo (ma ormai mi sento un po’ isolata… :-)
    Ricordiamoci che la Corte UE impone la ricerca di una “violazione sufficientemente qualificata” del diritto europeo escludendo, in buona sostanza, un’indagine sulla colpa soltanto ogniqualvolta ciò “vada oltre” l’accertamento di una violazione sufficientemente caratterizzata. E gli indici sintomatici suggeriti dalla Corte di Giustizia per tale accertamento, se ve li andate a riguardare, hanno tutti una connotazione fortemente soggettivistica. Certo, soggettivistica se ci si ricorda che il soggetto danneggiante non è una persona fisica e che la colpa statale è pur sempre una colpa di apparato (per richiamare le parole di un’altra famosa sentenza a Sez. unite, la n. 500/99) e che nemmeno è ammissibile pensare alla colpa statale come colpa del funzionario agente.
    Del resto, nel settore vicino della resp. della P.A., la giurisprudenza amministrativa (o meglio , una parte di essa) sembra ormai aver capito l’antifona. E in questi termini potrebbero essere inquadrati – anche se vanno attentamente soppesati nel senso di una reale tendenza oggettivante che va emergendo presso la Corte UE – recenti pronunciamenti europei sulla resp. della P.A. in materia di appalti pubblici (v. Corte giust., 30 settembre 2010)
    Scusate se mi sono dilungata (e per la forma un po’ sconclusionata…)

  12. Non ho ben capito un passaggio della tua tesi…”isolata”, come dici tu :) Cosa significa esattamente che il requisito soggettivo sarebbe richiesto dalla Corte UE sol quando l’inadempimento dello Stato “vada oltre” una violazione “sufficientemente caratterizzata” del diritto europeo? Forse che a seconda della gravità dell’inadempimento varia l’imputazione della condotta antigiuridica: fatto meno grave=responsabilità soggettiva; fatto più grave=responsabilità oggettiva?

  13. No, mi spiego meglio.
    La Corte di Giustizia, nel prevedere le condizioni di responsabilità degli Stati membri per violazione di norme europee, non parla mai di colpa ma si limita ad imporre che la violazione sia “sufficientemente qualificata” (in passato usava l’espressione “violazione grave e manifesta”). Nell’individuare però gli indici sintomatici di una violazione sufficientemente qualificata, alla luce dei quali la responsabilità viene imputata allo Stato, detta criteri di natura sostanzialmente soggettiva, perché impongono quello che, in definitiva, è un giudizio di rimproverabilità allo Stato della condotta dannos tenuta, giudizio che ovviamente non può non tener conto del fatto che il danneggiante è un soggetto del tutto peculiare (lo Stato, appunto).
    In questi termini mi pare che la giurisprudenza europea – soprattutto in ragione dell’intento selettivo in ragione del quale impone le tre condizioni di responsabilità da Francovich in poi – offra sostegno alla tesi di un’imputazione soggettiva della responsabilità degli Stati membri.
    Richiesta in sede di rinvio pregiudiziale di pronunciarsi sulla compatibilità con le condizioni di responsabilità da essa imposte di una normativa nazionale che sottoponesse l’accertamento della responsabilità dello Stato membro ad un’indagine sulla colpa, la Corte di Giustizia ha risposto sostanzialmente in questi termini (parafraso, ovviamente): “l’indagine sulla colpa statale non è ammissibile qualora vada oltre l’accertamento di una violazione sufficientemente qualificata”, espressione che è stata per lo più letta dagli interpreti come un rifiuto della Corte UE di modelli di imputazione soggettiva della responsabilità per lo Stato membro che violi il diritto europeo.
    Ma se si leggono più attentamente i precedenti europei in materia (e le loro motivazioni) si nota, come dicevo ieri, che i criteri prescelti dalla Corte UE hanno natura in buona parte soggettiva (se riferiti ad un danneggiante come lo Stato, appunto) . Per cui l’esclusione di un’indagine sulla colpa che “vada oltre” l’accertamento di una violazione sufficientemente qualificata sta(rebbe) semplicemente a significare che non è possibile un accertamento che investa profili diversi da quelli ricompresi nella nozione europea di violazione sufficientemente qualificata (per es. ancorare l’indagine sulla colpa statale a quella sulla negligenza del funzionario agente). Nozione, quella di v. sufficientemente qualificata, che è già di per sé in buona parte soggettiva (nel senso detto sopra).
    Piuttosto, un’opzione per una responsabilità (extracontrattuale) oggettiva degli Stati membri potrebbe aversi se, anche in tale contesto, prendesse piede – come è anche probabile – il più recente orientamento della Corte UE in tema di appalti pubblici, cui accennavo ieri. Ma questo perché in questa (ed alcune altre) sentenze si afferma espressamente che la colpa non possa essere accertata neppure attraverso lo schema dell’errore scusabile (che la stessa Corte di Giustizia utilizza da tempo proprio in tema di accertamento della “violazione sufficientemente qualificata” e che la nostra giurisprudenza amministrativa sta utilizzando in materia di indagine sulla colpa della P.A.).
    Per il momento mi pare una scelta dettata, in materia di appalti pubblici, da quella che è l’esigenza da sempre più sentita dalla Corte UE: assicurare l’effettività e la cogenza del diritto europeo. Ma proprio perciò la Corte potrebbe decidere di generalizzare il principio.
    A quel punto è chiaro che non potrebbe non parlarsi di responsabilità – extracontrattuale – di tipo oggettivo, che certo solleverebbe qualche perplessità (non tanto in sé, quanto per i rischi di degenerazione verso modelli indennitari che l’opzione per una oggettivazione della responsabilità statale talvolta porta con sé, degenerazione non certo negli intendimenti della Corte UE – che resta saldamente ancorata alla responsabilità risarcitoria – quanto nell’applicazione che potrebbero darne i giudici nazionali. E di nuovo le Sezioni Unite ’09 ne sono un esempio)

  14. Condivido le perplessità sugli argomenti usati nella pronuncia resa a sezioni unite.
    Si può ipotizzare una soluzione più lineare della questione.
    L’equivoco di fondo risiede nel ritenere che dall’obbligo previsto nei trattati di dare attuazione alle direttive scaturisca un rapporto obbligatorio tra lo Stato ed il singolo cui la direttiva attribuisca, in potenza, un diritto soggettivo. Infatti, il privato non ha, per ciò soltanto, diritto all’attuazione, bensì vanta un particolare interesse in tal senso, che è meritevole di tutela. Questa situazione, come ho detto più sopra, può essere accostata, almeno su un piano descrittivo, all’interesse legittimo.
    Se questo schema è corretto, va da sé che la responsabilità in cui incorre lo Stato ha natura extracontrattuale, per lesione di un interesse protetto dalla normativa sovranazionale.
    Quindi, a ben vedere, l’obbligo di cui si tratta presenta come soggetto attivo, che può pretendere l’adempimento, soltanto l’Unione, alla quale lo Stato ha conferito questo potere con l’originaria adesione. Il privato, invece, è titolare soltanto di un interesse, differenziato e qualificato, a veder correttamente esercitato il potere legislativo. Infatti, l’obbligo esistente sul piano sovranazionale costituisce un vincolo apposto all’esercizio del potere. Quando lo Stato viola le regole che presiedono all’attuazione delle direttive, fa cattivo uso del potere di cui è titolare, ossia di dare ad esse attuazione, anche in via legislativa.
    Questo illecito genera l’obbligo di risarcimento del danno, in conformità delle norme italiane sulla responsabilità extracontrattuale.
    Quanto all’elemento soggettivo, pare difficile superare l’orientamento manifestato dalla Corte di Giustizia, la quale nettamente esclude ogni indagine in proposito. Il fatto poi che la violazione debba essere caratterizzata da gravità, è da ricondurre all’intendimento di non dare ingresso a pregiudizi trascurabili, in quanto non seri. Quand’anche gli indici rivelatori impiegati dalla giurisprudenza rievochino un giudizio di imputazione soggettiva, rimane diversa la finalità dell’accertamento: non si intende stabilire se si sarebbe potuto esigere dallo Stato un diverso comportamento, bensì se il comportamento tenuto, oggettivamente lesivo, superi la soglia della normale tollerabilità. Si tratta di una selezione dei danni risarcibili tanto più necessaria se si considera la peculiarità della materia.
    Quindi, pare ragionevole ricondurre questo requisito al piano oggettivo.

  15. Sì, questa è la ricostruzione che sembra più quotata in dottrina, specialmente nella dottrina comunitaria, la quale però – in coerenza con i principi generali della responsabilità civile italiana – prevede la necessaria colpevolezza dello Stato.
    Questa, a mio avviso, è la soluzione più lineare di tutte.
    Tuttavia, le SS.UU. del 2009 sono state costrette alla forzatura che ormai conosciamo per riuscire a collocare sistematicamente una (imposta) imputazione oggettiva di tale responsabilità.
    Ed invero, considerato che l’unico dato certo da cui l’interprete può partire è quello della imputazione oggettiva, si comprende bene la necessità sistematica di addivenire ad una forma di responsabilità di tipo indennitaria: ma quale fonte di obbligazioni, nel nostro ordinamento, è idonea a generare siffatto tipo di responsabilità senza una previsione di legge espressa? Per l’appunto, il fatto “altro” di cui all’art. 1173 c.c., ossia l’obbligazione ex lege…..
    Pertanto, se la premessa di fondo è corretta (i.e. l’imputazione oggettiva della responsabilità, e qui il “se” è doveroso per rispetto della tesi di Chiara), alla fin fine mi sento di condividere il risultato esegetico a cui le SS.UU. del 2009 sono giunte.
    Per altro verso, sempre sulla base della premessa di fondo, una tesi italo-compatibile mi pare sia impossibile da sostenere funditus, e allora – anche sulla scorta della novella normativa del 2011 – forse è il caso di emanciparci dal dato che si dice imposto dalla Corte di Giustizia, e concludere per la tesi affatto lineare della responsabilità aquiliana da violazione di interesse legittimo, anche perché Chiara non ha tutti i torti quando scrive che i criteri enunciati da Lussemburgo ricordano più che un’imputazione oggettiva, un’imputazione soggettiva adeguata al soggetto-Stato.

  16. Sono condivisibili le osservazioni di Antonio sulla natura extracontrattuale della responsabilità, tanto più se si considera l’impostazione seguita della Corte di Giustizia (e ciò sul piano sostanziale, non soltanto delle formule lessicali utilizzate).
    Sulla questione, poi, dell’imputazione oggettiva o soggettiva, non c’è dubbio che se la direzione che la Corte di Giustizia intraprenderà – ed è molto probabile intraprenda, visti i suoi più recenti pronunciamenti in ambiti molto vicini a quello su cui stiamo chiacchierando – sarà nel senso di una oggettivazione della responsabilità, anche i giudici italiani non potranno che adeguarsi.
    Ma quella nel senso di un’imputazione oggettiva della responsabilità extracontrattuale al legislatore nazionale sarà un’opzione di – per così dire – politica del diritto: tra un’esigenza di selezione dei danni risarcibili e un’esigenza di effettività del diritto europeo , entrambe da sempre sottese alla giurisprudenza europea in tema di illecito “comunitario”, verrebbe data prevalenza alla seconda e, per ragioni forse storiche e contingenti, ad una più automatica tutela del cittadino europeo contro i comportamenti dannosi degli Stati.
    Nella nozione di violazione sufficientemente qualificata, per come strutturata dalla stessa Corte UE, l’intento selettivo è al contrario fortemente presente, anche sul piano di una valutazione in ordine alla rimproverabilità della condotta dannosa allo Stato (mentre un’imputazione oggettiva per forza di cose implica che la responsabilità sia legata ad una mera violazione delle norme europee, ovviamente se presenti gli altri presupposti prescritti dalla Corte di Giustizia).
    Non ci sono conseguenze pregiudizievoli che possano escludersi dal risarcimento una volta imputata una responsabilità extracontrattuale al legislatore nazionale. E’ proprio perchè consapevole di ciò che la Corte UE si era premurata di definire le tre condizioni di responsabilità degli Stati membri e , in particolare, quella di violazione sufficientemente qualificata, suggerendo criteri selettivi che attengono alla struttura stessa dell’illecito extracontrattuale in modo non così dissimile dal ruolo svolto dal giudizio di ingiustizia e da quello sull’elemento soggettivo nella nostra esperienza giuridica.
    A prescindere da quelle che saranno, in un futuro prossimo, le prese di posizione e le scelte di opportunità – anche in parte comprensibili – della Corte UE, resta in termini più generali la proficuità, sul piano funzionale e, per l’appunto, selettivo, di un modello di responsabilità soggettiva dello Stato – ovviamente interpretata coerentemente con le circostanze del caso concreto, prima tra tutte l’assoluta peculiarità dell’agire pubblico – che bilanci l’insopprimibile esigenza di tutela dei cittadini con la peculiare posizione dello Stato: non ci sarebbe così bisogno di interventi contingenti e improvvisati come quello della Legge di stabilità, che non si pone certamente complessi problemi qualificatori ma cerca solo di mettere un freno all’”attacco” alle casse statali.

  17. Segnalo la recentissima pronuncia della Corte di Giustizia U.E., sez. III, 24 novembre 2011, causa C-379/10, per la quale “è in contrasto con il principio generale di responsabilità degli Stati membri per violazione del diritto dell’Unione da parte di uno degli organi giurisdizionali di ultimo grado l’individuazione di limiti a dette azioni avviate dai singoli, non previsti dal diritto comunitario. E’ contraria al diritto Ue l’esclusione di ogni responsabilità dello Stato per danni arrecati ai singoli in relazione a talune attività del magistrato come quella di interpretazione o di valutazione di fatti e prove. E’ altresì in contrasto con il principio generale di responsabilità per violazione del diritto dell’Unione, la limitazione della concessione del risarcimento ai soli casi in cui l’individuo leso dimostri il dolo o la colpa grave del giudice nell’applicazione del diritto dell’Unione” (massima tratta da Guida al dir., 49, p. 96).
    Mi verrebbe quasi da chiedermi: e se la legge prevedesse la sufficienza della colpa lieve? Ciò sarebbe ugualmente in contrasto con il diritto U.E.? Si può forse pretendere una responsabilità oggettiva anche in questa materia? …

  18. Se la legge prevedesse la colpa lieve sarebbe comunque in contrasto con il diritto dell’Unione.
    La pronuncia (reperibile qui), infatti, è resa con riguardo all’art. 2 della legge 13 aprile 1988, n. 117, sulla responsabilità civile dei magistrati, e questa disposizione dà rilievo soltanto ai fatti commessi con dolo o colpa grave.
    In questo come in ogni altro caso si impone la responsabilità oggettiva: posto che lo Stato risponde sempre in termini unitari per la violazione imputabile ad uno dei suoi organi, non può farsi eccezione, nemmeno in ordine alla natura della responsabilità, quando l’organo abbia carattere giurisdizionale.

  19. Beh, è ovvio che sia così se si fa riferimento alla giurisprudenza della Corte tutta sopra richiamata; la provocazione, però, in modo altrettanto ovvio era riferita a quest’ultima sentenza della Corte, dalla quale – a mio sommesso avviso – non mi sembra si possa evincere tale conclusione in modo così tanto sicuro, visto che a chiare lettere è ribadito che la condizione della “violazione sufficientemente caratterizzata” dev’essere intesa, nel caso di specie, “nel senso che consenta di invocare la responsabilità dello Stato solamente nel caso eccezionale in cui il giudice abbia violato in maniera manifesta il diritto vigente (v. sentenza Köbler, cit., punti 52 e 53)”.
    Quindi, viene da pensare che se i giudici italiani interpretassero la nozione di “colpa grave” in modo aderente al concetto di “violazione manifesta” (e concettualmente non mi sembra affatto impossibile), per il diritto UE non ci sarebbe alcun problema di legittimità (“Orbene, indipendentemente dalla questione se la nozione di «colpa grave», ai sensi della legge n. 117/88, malgrado il rigoroso contesto in cui essa si colloca all’art. 2, terzo comma, della legge medesima, possa essere effettivamente interpretata, nell’ipotesi di violazione del diritto dell’Unione da parte di un organo giurisdizionale di ultimo grado dello Stato membro convenuto, in termini tali da corrispondere al requisito di «violazione manifesta del diritto vigente» fissato dalla giurisprudenza della Corte, si deve rilevare che la Repubblica italiana non ha richiamato, in ogni caso, nessuna giurisprudenza che, in detta ipotesi, vada in tal senso e non ha quindi fornito la prova richiesta quanto al fatto che l’interpretazione dell’art. 2, commi 1 e 3, di tale legge accolta dai giudici italiani sia conforme alla giurisprudenza della Corte”).
    Ma, se questo è vero, laddove la Corte abbia precisato che l’importante è che non si finisca “per imporre requisiti più rigorosi di quelli derivanti dalla condizione di «violazione manifesta del diritto vigente»”, ne consegue che – in teoria – sarebbe compatibile con il diritto UE anche il requisito certamente meno rigoroso della colpa lieve.
    Insomma, secondo me quest’ultima sentenza non fa che alimentare i legittimissimi dubbi espressi da Chiara sul fatto che non vi sia spazio per il requsito della colpevolezza in capo allo Stato inadempiente.

  20. A chi fosse sfuggita e sia interessato, segnalo Cass., 31 agosto 2011, n. 17868, nella quale si perviene ad una interessante conclusione circa il dies a quo del termine di prescrizione realtivo al diritto di risarcimento del danno da mancata attuazione della Direttiva 82/76/CEE.

  21. Vi segnalo anch’io una sentenza (Cass., 8 febbraio 2012, n. 1850), ancora sul contenzioso relativo alla remunerazione dei medici specializzandi, che conferma, in tema di prescrizione, la pronuncia riportata da Gianluca e affronta anche il tema dello ius superveniens in relazione alla Legge di stabilità per il 2012.
    Mi pare interessante anche un altro aspetto che traspare nelle motivazioni di questa sentenza – sebbene la Suprema Corte non prenda posizione al riguardo –e in altre abbastanza recenti (ancor più netta in questo senso mi pare Cass.,16 marzo 2012, n. 4241). La lettura indennitaria della responsabilità del legislatore – voluta dalle Sezioni Unite del 2009 – seppur discutibile, intenderebbe muovere da un obbiettivo di giustizia sostanziale: fornire una più ampia tutela al cittadino attraverso una prescrizione decennale e un onere probatorio alleggerito (non dovendosi provare la colpa). Tuttavia parlare di indennizzo, invece che di risarcimento e fatto illecito, porta con sé il rischio di una progressiva tendenza alla sottocompensazione: ed è quello che di fatto mi pare vada emergendo con il riferimento sempre più frequente , da parte delle Corti, ad un “risarcimento” parametrabile sull’entità dell’indennizzo di cui alla L. 370/1999.
    Peccato che la Corte di Giustizia parli da 20 anni di integralità del risarcimento…

  22. Sulla scia della giurisprudenza segnalata da Chiara, vedi anche Cass., sez. III, 27 gennaio 2012, n. 1182, secondo cui la liquidazione del risarcimento dei danni per mancata trasposizione tempestiva delle direttive comunitarie 75/362/CEE e 82/76/CEE (in materia di adeguata remunerazione della formazione dei medici specializzandi) “non può che avvenire sul piano equitativo, secondo canoni di parità di trattamento per situazioni analoghe, dovendo utilizzarsi come parametro di riferimento le indicazioni contenute nella legge 370/1999, con cui lo Stato italiano ha proceduto ad un sostanziale atto di adempimento parziale soggettivo nei confronti di tutte le categorie astratte in relazione alle quali, dopo il 31 dicembre 1982, si erano potute verificare le condizioni fattuali idonee all’acquisizione dei diritti previsti dalle citate direttive comunitarie e che non risultano considerate nel D.Lgs. 257/1991” (fonte: D&G del 19 aprile 2012).

  23. Per puro interesse bibliografico, vi segnalo anche Cass., sez. III, 11 novembre 2011, n. 23577, Cass., sez. III, 11 novembre 2011, n. 23570, Cass., sez. III, 11 novembre 2011, n. 23568, e Cass., sez. III, 11 novembre 2011, n. 23558, tutte massimate in Studium iuris, 6, 2012, 746.

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