[ART. 45 C.D.F.] Gli accordi sulla definizione del compenso

Il 12 giugno 2008 il Consiglio Nazionale Forense ha deliberato talune modifiche del codice deontologico forense (c.d.f.), tra cui quella concernente gli accordi sulla definizione del compenso spettante all’avvocato per l’esercizio dell’attività prestata.
La modifica in esame è intervenuta sull’art. 45 c.n.f., il quale recitava che «è consentito all’avvocato pattuire con il cliente compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti, fermo il divieto dell’articolo 1261 c.c. e sempre che i compensi siano proporzionati all’attività svolta».
Come è noto, la legittimità del c.d. patto di quota-lite (ossia, avente ad oggetto il “compenso parametrato al raggiungimento degli obiettivi perseguiti”) è stata affermata per la prima volta nel 2006, quando l’art. 2, comma 1, d.l. 4 luglio 2006, n. 223, convertito dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, ha abrogato tutte «le disposizioni legislative e regolamentari che prevedono con riferimento alle attività libero professionali e intellettuali - tra cui quella forense, appunto – …l’obbligatorietà di tariffe fisse o minime ovvero il divieto di pattuire compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti».
Tuttavia, l’adeguamento della disciplina deontologica che ne è seguito (a norma dell’art. 2, comma 3, d.l. n. 223/2006) aveva lasciato alquanto perplessi nella parte in cui, secondo il nuovo art. 45 c.d.f., si era conservato il divieto per gli avvocati di rendersi cessionari, anche per interposta persona, di diritti oggetto di una causa da loro patrocinata, a pena di nullità della cessione e dei relativi danni (ex art. 1261, comma 1, c.c).
Il dubbio originava in primis sul piano delle norme giuridiche, laddove il disposto dell’art. 1261 c.c. va relazionato con il novellato comma 3 dell’art. 2233 c.c., secondo cui «sono nulli, se non redatti in forma scritta, i patti conclusi tra gli avvocati ed i praticanti abilitati con i loro clienti che stabiliscono i compensi professionali» (art. 2, comma 2-bis, d.l. n. 223/2006).
Per quanto concerne la professione forense, infatti, l’art. 1261 c.c. è rimasto fortemente legato – anche sotto il profilo lessicale – alla disposizione del vecchio comma 3 dell’art. 2233, che così disponeva: «Gli avvocati, i procuratori e i patrocinatori non possono, neppure per interposta persona, stipulare con i loro clienti alcun patto relativo ai beni che formano oggetto delle controversi affidate al loro patrocinio, sotto pena di nullità e dei danni».
Nell’attuale sistema normativo, invece, la cessione all’avvocato del diritto controverso rappresenterebbe una modalità come un’altra di determinare il compenso dell’avvocato secondo il principio stabilito dal nuovo art. 2233 c.c.; modalità che – in ipotesi – non potrebbe ritenersi esclusa rispetto a tutte le altre giuridicamente ammissibili, a pena di irragionevolezza (cfr. art. 3 Cost.).
In realtà, la questione si presenta più problematica se si pensa che l’ammissibilità della cessione del credito controverso potrebbe non superare le istanze di tutela sottese al divieto dell’art. 1261 c.c., ovverosia quella di evitare un mercimonio di cause potenzialmente pregiudizievole anche per lo stesso cliente dell’avvocato.
In tale contesto esegetico, l’Autorità per la Concorrenza e il Mercato ha infine auspicato la modifica dell’art. 45 c.d.f., e precisamente attraverso l’integrazione della norma con la locuzione «fermo restando il principio di libera determinazione del compenso» (leggi il testo dell’audizione dell’Autorità, avvenuta il 18 aprile 2008 nell’ambito dell’indagine conoscitiva sugli Ordini professionali avviata nel gennaio 2007).
Il rilievo formulato dall’Autorità per la Concorrenza e il Mercato è stato, poi, accolto dal Consiglio Nazionale Forense, il quale ha così aggiornato l’art. 45 c.d.f.: «È consentito all’avvocato pattuire con il cliente compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti, fermo il divieto dell’articolo 1261 c.c. e sempre che i compensi siano proporzionati all’attività svolta, fermo il principio disposto dall’art. 2233 del Codice civile».
Quale sia il senso – o, forse più correttamente, l’effettivo valore della modifica – non è facile capirlo.
Si può allora solo tentare la seguente interpretazione: la cessione di diritti sui quali è sorta la contestazione affidata all’avvocato o al praticante abilitato, ai sensi dell’art. 1261 c.c., può essere validamente pattuita nei limiti di cui all’art. 2233 c.c.; ossia

  1. ai fini della determinazione del compenso spettante al professionista forense,
  2. nel rispetto della forma scritta ad substantiam,
  3. purché il valore dei diritti ceduti sia adeguato all’importanza dell’attività svolta e al decoro della professione forense.

In questo modo, la conservazione del riferimento all’art. 1261 c.c. e la precisazione da ultimo inserita avrebbero un significato “sistematico” più chiaro: di contro, cioè, il divieto di cessione sussisterebbe allorquando la stessa non sia connotata dalla funzione rimuneratoria di cui all’art. 2233 c.c. (cfr., in proposito, anche il comma 2 dell’art. 1261 c.c.) e quando, di conseguenza, rischi effettivamente di trasformare il professionista forense in un “mercante di cause”.

Lascia un Commento